Genocidio in Ruanda: per don Seromba è ergastolo
Genocidio in Ruanda: per don Seromba è ergastolo
11 Dicembre 2008
Inserito da Lorella Binaghi Spedisci E-Mail
L'Africa è anche mia madre, i suoi figli e figlie, i miei fratelli e
le mie sorelle. LB.
PREMESSA:
La "Corte Internazionale di Giustizia" è un organo del tutto illegale!
(1). Non sono affermazioni mie, leggete la nota in fondo alla pagina.
In ogni caso, questa "Corte Internazionale di Giustizia" è stata
costretta a rendere noto uno dei milioni di casi che riguardano crimini
contro intere tribù indifese, in questo frangente, gli Hutu del
Ruanda, dietro al gesto di un prete cattolico, forze illegittime militari e
la lobby vaticana, hanno permesso un terribile genocidio di massa.
Si spera che il sacerdote incriminato non finisca in qualche ostello
Gulliver, ospitato a spese dei contribuenti europei, nutrito a caviale e
champagne, dotato di telefonino cellulare e di personale umano impiegato
per le sue "attività ludiche"! (...).
Segue il testo.
Lorella Binaghi
Documentazione tratta dal link
http://club.quotidianonet.ilsole24ore.com/?q=node/1573
Ruanda: per don Seromba è ergastolo
Pubblicato da Alessandro Farruggia Mer, 12/03/2008 - 21:09
Ricordate Don Seromba? Il prete di etnia hutu che tra il 1997 e il 1999 fu
irreprensibile viceparroco della parrocchia fiorentina dell'Immacolata a
Montughi e fu poi accusato dal Tribunale penale internazionale per il
Ruanda di aver commesso nella sua parrocchia nel terribile 1994 ruandese _
atti di genocidio e di sterminio che sono costati la vita a circa 1500
esseri umani, colpevoli solo di essere di etnia tutsi? Ieri in appello la
Corte l'ha condannato all'ergastolo, aggravando il giudizio sulle sue
responsabilità, che gli erano già costate una condanna a 15 anni
in primo grado. Ora non si tratta più di concorso di genocidio ma di
genocidio. Di partecipazione piena e consapevole a crimini contro
l'umanità. Assieme ad un collega del Sunday Times, grazie ad un
dossier di una associazione per la difesa dei diritti umani, trovammo a
Firenze don Seromba che si faceva chiamare Sumba Bura _ e grazie al collega
Alessandro Antico ne avemmo anche l'intervista, nella quale negò
tutto. Per questa terribile vicenda fui anche chiamato a testimoniare _
come testimone dell'accusa al Tribunale penale internazionale per i crimini
in Ruanda, cosa che faci senza esitazioni recandomi in Tanzania
nell'autunno del 2004. Grazie ai diciassette testimoni oculari che
ricostruirono la strage avvenuta nella parrocchia di Nyanza tra il 13 e il
14 e il 16 aprile 1994 don Seromba fu condannato a quindici anni e oggi
arriva per lui l'ergastolo. Con grande amarezza dico: sarebbe stato meglio
per tutti se le accuse si fossero dimostrate esagerate, persino non vere,
ma alla luce di quanto è stato ricostruito in sede processuale, non si
può non dire che giustizia è stata fatta. Per una volta almeno.
p.s. per chi mi ha segnalato che si trova all'estero e non ha accesso ai
nostri quotidiani, questo è il mio articolo pubblicato sul Quotidiano
Nazionale di oggi.... di Alessandro Farruggia — ROMA — Disse:
«Dio conosce la verità, a me basta questo». E per don
Athanase Seromba ora non resta che confidare nel supremo giudizio divino e
pregare che sia ben diverso da quello del Tribunale criminale
internazionale per i crimini in Ruanda, che ieri, in appello —
aggravando la sua posizione che in primo grado gli aveva fruttato una
condanna a 15 anni — l’ha destinato all’ergastolo per due
accuse terribili, ancor più per un sacerdote: "Genocidio e sterminio,
crimini contro l’umanità". La storia di Athanase Seromba, 43
anni, di etnia hutu, è un amaro simbolo della tragedia ruandese, che
nel 1994 esplose causando tra 800 mila e 1 milione di morti, la maggior
parte dei quali di etnia tutsi. Nell’aprile 1994 Seromba era parroco
a Nyange e quando iniziò a scorrere il sangue lui dovette scegliere, e
fece prevalere l’ultrà hutu sul sacerdote. Una scelta che gli
fece assumere, come stabilisce la sentenza, «un ruolo determinate
nella distruzione della chiesa della parrocchia di Nyange e nella morte di
circa 1500 tutsi che vi avevano trovato rifugio». Millecinquecento
persone schiacciate vive con i bulldozer e alcune altre cacciate dalla
canonica e subito fucilate, di questo è stato provato colpevole don
Seromba, e da questo è scappato in quel terribile 1994, dapprima in
Zaire e poi in Italia, assumendo la falsa identità di don Athanase
Sumba Bura e diventando fino al 1999 l’irrepresibile viceparroco
della chiesa fiorentina di San Martino a Montughi. Ma è difficile, a
volte impossibile liberarsi di un passato tanto ingombrante. Sulle sue
tracce c’era l’associazione umanitaria inglese African Rights,
che ricostruì la sua storia, trovò ben diciassette testimoni
oculari, alcuni dei quali hutu, e confezionò un agghiacciante dossier
— nel quale si faceva il nome di altri cinque religiosi ruandesi
responsabili di altri crimini — che il 13 maggio del 1998 invio al
Vaticano. Non successe nulla. E così, nel novembre dell’anno
successivo African Rights — che sapeva che don Seromba si nascondeva
in Toscana ma non dove — inviò il dossier al Tribunale per i
crimini in Ruanda. Ne entrammo in possesso anche io ed un collega del
Sunday Times. Ci lavorammo con il collega Alessandro Antico. Trovammo
Seromba e lo intervistammo, riportandop la sua autodifesa il giorno stesso
— era il 21 novembre del 1999 — nel quale pubblicammo in
contemporanea in Gran Bretagna e Italia la notizia. Per Seromba fu
l’inizio della fine. Dopo qualche giorno si rese irreperibile —
non latitante perchè ancora non c’era un ordine di cattura
— ma poi ricomparve e il 6 febbraio 2002 si consegnò al
tribunale, che mi chiese di testimoniare, cosa che feci il 21 ottobre 2004,
nella sede della Corte internazionale, ad Arusha, in Tanzania, interrogato
dalla procuratrice Silvana Arbia, vice della Carla del Ponte, e lungamente
controinterrogato dalla difesa. Per Seromba il processo andò male ma
non malissimo: venne infatti condannato per "concorso in genocidio e
concorso in sterminio". Il concorso è diventato ora partecipazione
piena ed è scattato l’ergastolo anche se la Corte ha trovato
«non dimostrate oltre ogni ragionevole dubbio la tesi
dell’accusa che il genociodio fu da lui preparato e pianificato in
anticipo con le autorità locali del "comitato speciale per la
sicurezza"». Accadde insomma senza premeditazione, ma accadde con sua
piena consapevolezza. Quando le autorità hutu e le milizie Interhamwe
che dopo aver tentato invano di dar fuoco alla chiesa piena di rifugiati
gli portarono davanti il guidatore del bulldozer col quale raderla al suolo
— spiega la sentenza — lui replicò: «Se non avete
altri sistemi, allora portate il bulldozer e distruggete la chiesa. I
demoni sono all’interno e quando i demoni sono in una chiesa allora
questa deve essere distrutta». I demoni erano circa millecinquecento
disgraziati esseri umani colpevoli solo di essere di etnia tutsi. «Il
14 luglio — raccontò Bertin Ndakubana, poliziotto e testimone
oculare — attaccarono la chiesa con machete, postole, bombe a mano,
fucili. Dentro la gente moriva e chi usciva veniva immediatamente ucciso. E
don Seromba stava sulla veranda di casa e assisteva al massacro come se
guardasse un film». Ma la strage procedeva a rilento e così gli
aggressori decisero di seppellire vivi i tutsi. «Io non volevo
distruggere una chiesa — ha rccontato Anastase Zerian, uno dei due
guidatori di bulldozer — ma Seromba mi disse di farlo. La chiesa fu
completamente rasa al suolo con la gente dentro e quelli che uscivano dalle
acerie venivano finiti. Quindi Seromba con altri tornò nel
presbiterio, dove trovarono una giovane ragazza chianata Adrienne che stava
preparandosi a prendere i voti. Lei chiese pietà a Seromba ma lui
replicò che non valeva più degli altri. Fu uccisa e Seromba era
lì». «Seromba — dice la sentenza — ha cacciato i
dipendenti tutsi e altri rifugiati dalla canonica e ha assistito
all’uccisione di diversi di loro». Tra questi un giovane di nome
Patrice, una ragazza di nome Meriam. Un orrore infinito. «Dio conosce
la verità», disse Seromba. Questo è certo. E per quel che la
giustizia umana ha stabilito, a meno che don Seromba non confidi
nell’infinita misericordia divina, questo non dovrebbe affatto
tranquillizzarlo.
Nota
1) - ...cresce la diffidenza americana verso l’appena istituita
Corte Penale Internazionale, chiamata a giudicare i crimini di guerra. Gli
Stati Uniti – che con Clinton presidente sottoscrissero il documento
costitutivo della Corte – ora sostengono che il Tribunale
Internazionale non è soggetto ad una supervisione, non ha limitazioni
e, inoltre - a differenza dei Tribunali per i crimini nell'ex Jugoslavia o
nel Ruanda – non dispone di un referente come il Consiglio di
Sicurezza dell'ONU, a cui soltanto spetta la definizione e la denuncia di
un atto di aggressione. Essendo protagonisti di un impegno globale in prima
linea (operazioni militari di peacekeeping oppure contro il terrorismo),
gli USA sostengono di temere di diventare il bersaglio più invitante
per procuratori del Tribunale Internazionale ispirati da moventi ideologici
o di autopromozione pubblicitaria. L’inversione di marcia nei
confronti della Corte Internazionale di Giustizia è clamorosa. Ora
Washington – che teme l’incriminazione dei propri militari -
chiede che la giustizia internazionale sia soggetta a particolari
bilanciamenti e controlli. Quello che è stato istituito è invece
un Tribunale assolutamente svincolato da condizionamenti, capace di
indagare e di processare in piena autonomia. Una cosa che non piace agli
USA che ora stanno trattando con i singoli stati aderenti per sottoscrivere
accordi bilaterali in cui si riconoscano la competenza ed il diritto dei
rispettivi sistemi giudiziari di trattare gli stessi crimini che la Corte
Internazionale è invece chiamata a perseguire. Accordi bilaterali che
mirano ad impedire l’estradizione dei rispettivi cittadini verso la
Corte di Giustizia. Una maniera per vanificare la stessa funzione dei
Tribunali Internazionali. Ecco perché l'Amministrazione Bush, pur non
revocando la firma apposta all'ultimo minuto dall'allora presidente
Clinton, ha notificato all'ONU il ritiro americano dal TPI. Scegliendo
questa strada gli americani cercano di respingere l'accusa loro rivolta e
cioè “di volersi porre al di sopra della legge” .
Fonte
http://209.85.129.132/search
Approfondimenti
http://beta.vita.it/news/view/38735/
Ulteriori approfondimenti
Clicca Rassegna del
Var
© 2005 - 2008 Grafica e layout sono d'esclusiva proprietà di cieliparalleli.com