Esportare democrazia, ma non averla in Patria. La paradossale mission dei militari italiani. Di Giorgio Carta
Esportare democrazia, ma non averla in Patria. La paradossale mission dei militari italiani. Di Giorgio Carta
9 settembre 2010
Inserito da Lorella Binaghi
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L'avv. Giorgio Carta, Presidente del Partito per gli Operatori della
Sicurezza e della Difesa ha ceduto la seguente interessante relazione
tratta in
www.grnet.it/
Avv. Giorgio Carta, Presidente del Partito per gli Operatori
della Sicurezza e della Difesa in Italia.
Esportare democrazia, ma non averla in Patria. La paradossale mission
dei militari italiani.
Di Giorgio Carta
Roma, 8 settembre - (avv. Giorgio Carta) - Siamo inopinabilmente un Paese
(impegnato) in guerra, visto che impieghiamo con regolarità nostri
connazionali armati all’estero e, non di rado, qualcuno fa ritorno
dentro una bara addobbata col tricolore; senza contare le vittime
avversarie e civili che inevitabilmente – per interposta persona
– disseminiamo nel nostro peculiare intento di esportare la
democrazia a suon di carri armati.
Ma rilevarlo non è elegante, stona in qualsiasi contesto e,
soprattutto, rischia di urtare trasversalmente troppe coscienze sporche.
Tanto più che, come disse Jean Paul Sartre, quando i ricchi si fanno
la guerra, sono i poveri che muoiono e, quindi, l’argomento si rivela
ulteriormente poco chic. Meglio parlare d’altro o,
all’occorrenza, servirsi di collaudati artifici linguistici quali
quello della “guerra preventiva” (coniato negli USA e,
malauguratamente per noi, configgente con quel testo desueto chiamato
Costituzione) o della “missione di pace”, espressione di un
talento glottologico che rinuncia al sinonimo di un temine e si affida, con
insperato successo, al suo contrario. Ma non è questo il punto che
vorrei trattare.
Piuttosto parlerei di un fenomeno sociale non a caso sconosciuto ai
più, ma assai rilevante e remunerativo sullo scacchiere
internazionale: i militari italiani che utilizziamo nelle missioni
denominate “di pace”, ma in cui, però – fatalmente -
si spara e si è sparati. Per i media e gli stati maggiori, i militari
si distinguono in due categorie: quelli che tornano morti e quelli, di
notevole minore rilevanza, che rientrano vivi. I primi sono notoriamente
molto celebrati ed apprezzati, anche se per il tempo strettamente
necessario a far defluire l’ultima troupe televisiva.
Successivamente, cala il silenzio e continueranno ad occuparsi di loro i
soli parenti, come quel genitore di un caduto in Nassyria che, di passaggio
a Roma per ritirare una medaglia al Quirinale, mi chiese di rassicurarlo
che le carte ricevute dal Ministero della difesa non comportassero per lui
una spesa.
Poi, ci sono gli altri militari, quelli che anonimamente e banalmente
rientrano in Patria vivi e che non fanno notizia, come
quell’Ufficiale saltato su una bomba in Afghanistan, ma sopravvissuto
(seppure con qualche osso da ricomporre), e che, al rientro in patria, mi
esibì sgomento le sue note caratteristiche declinate dai superiori e
chiedendomi di impugnarle gerarchicamente. O come quei 300 Carabinieri
impiegati in Kosovo che ora sono in causa con il Comando generale per
reclamare di essere pagati come i poliziotti impiegati nella stessa
missione e non la metà. Questi nostri eroi silenziosi, o meglio
silenziati da una stampa svagata e da una legge di disciplina militare
emergenziale che risale al 1978, vivono in una condizione di malessere e di
negazione dei diritti che non fa capolino in alcun discorso pubblico, ma
che sovente li conduce a gesti estremi se si considera che, secondo una
statistica, ogni mese in Italia si suicida un Carabiniere.
Molti ignorano che alcuni caduti delle missioni internazionali erano
semplici lavoratori precari, personale cioè chiamato ad una
prestazione professionale rischiosissima (difatti sono stati ammazzati),
senza nemmeno contare sulla stabilità del proprio posto di lavoro. Non
solo, molti degli odierni disoccupati sono ragazzi che ci hanno (si fa per
dire) rappresentato all’estero: loro con un mitragliatore in mano,
noi col telecomando a casa. Usati dallo Stato e gettati via dopo
l’uso, magari con qualche particella di uranio impoverito in corpo
che, a breve, li divorerà. Ho conosciuto giovani militari contaminati
che hanno preferito curarsi tumori alla tiroide in silenzio (e, quindi,
rinunciando ad ogni risarcimento) per non essere dichiarati non idonei nei
concorsi di stabilizzazione del loro rapporto di lavoro.
L’abolizione (o, meglio, la sospensione) della leva obbligatoria era
stata trionfalmente acclamata nel 2005 come il passaggio ad un esercito di
professionisti, efficiente ed economico, salvo poi servirsi di lavoratori a
tempo determinato che prestano indossano la divisa per un anno o per
quattro e poi sono restituiti alle loro famiglie. Me lo ricordava quel
genitore pugliese che, spaventato, mi chiedeva la settimana scorsa se
l’imminente partenza del figlio per l’Afghanistan gli avrebbe
quanto meno assicurato il posto fisso. E’ stato imbarazzante
spiegargli che il ragazzo né avrebbe potuto rifiutarsi di partire,
né avrebbe conseguito il passaggio al servizio permanente.
Soprattutto, però, pochi sanno che i militari italiani sono i più
bistrattati d’Europa. Difatti, non hanno diritto ad organizzarsi in
sindacato e anche solo per associarsi o riunirsi in circolo devono chiedere
l’autorizzazione al Ministro. Un’illegittima circolare del
ministero gli vieta di accedere a qualsiasi edificio parlamentare senza
esserne previamente autorizzati gerarchicamente in riferimento allo
specifico motivo della loro iniziativa. Il loro diritto ad iscriversi a
partiti politici, pur riconosciuto dalla Costituzione, viene loro sovente
associato alla minaccia di eventuali sanzioni disciplinari. La vetusta
disciplina militare fa di loro dei sudditi ed i loro diritti elementari di
tutela della salute, di opinione e di parola sono negati, visto che abbiamo
militari sottoposti a procedimento disciplinare di rigore per essersi
rifiutati di sottoporsi al vaccino influenzale, di dubbia efficacia e di
sospetta pericolosità.
Ancora nel 2000, abbiamo Carabinieri trasferiti perché sospettati di
avere relazioni extraconiugali o perché la coniuge invano si candida
alle elezioni comunali e riceve la bellezza di 4 voti. Altri carabinieri
sono sottoposti a procedimento disciplinare perché durante una ripresa
televisiva hanno osato guardare verso la telecamera o perché, nella
concitazione di un intervento in strada, non hanno prima indossato il
berretto (noblesse oblige!). Non a caso, l’Italia si è distinta
per essere l’unico Stato europeo che non ha risposto al questionario
predisposto dall'ODHIR - un'istituzione specializzata dell'OSCE che si
occupa di elezioni, diritti umani e democratizzazione - mediante il quale
è stato realizzato il manuale per i diritti umani e le libertà
fondamentali del Personale delle Forze armate. Ebbene, sono proprio questi
uomini in divisa, senza diritti e spesso precari, che noi inviamo in giro
per il mondo ad esportare, armi in pugno, la democrazia ed ha instaurare la
cultura dei diritti civili in terre lontane.
Quei diritti che, però, loro stessi non conoscono né possono
esercitare in Patria. La coerenza di un Paese, è il caso di dirlo, si
misura anche da questo.
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